Intervista ad Eleonora Zollo, autrice di “Dietro le quinte”
a cura di Paola Tricomi
In queste settimane viene dato alle stampe “Dietro le quinte” di Eleonora Zollo, edito da Echos edizioni: la narrazione autobiografica di una giovane donna che ogni giorno sperimenta nuovi margini di libertà e sviluppa nuovi sguardi con cui osservare la propria fisicità, vissuta dalla nascita con l’Atrofia Muscolare Spinale, e il mondo. L’importanza dei temi trattati dalla Zollo nella sua opera e la bellezza anche narrativa del suo romanzo ci conduce ad intervistarla.
“Dietro le quinte” vuole essere, secondo il tuo intento, un tentativo di rendere spettacolare la quotidianità di una persona con disabilità. Creare fascino intorno ad essa, stupore e allo stesso tempo attrarre, “sedurre” nel senso etimologico del termine. Abbattere il margine di paura che può limitare le relazioni spontanee. Ma ritieni ci sia in fondo anche l’idea della vita come opera d’arte?
L’idea che mi ha spinta nella realizzazione del mio romanzo è quella di mostrare il mio vissuto reale che può accomunare molte persone portatrici di disabilità più o meno gravi rispetto alla mia, un vissuto che troppo spesso rimane ancora celato dalle etichette, dai preconcetti legati alla malattia e alle difficoltà a essa connesse. Ricorrendo alla metafora del teatro, è come se questi pregiudizi si ponessero come una sorta di maschera che non lascia intravedere la persona che c’è sotto. Io voglio far vedere il retroscena inatteso della solita rappresentazione preconfezionata della disabilità, voglio disvelare la passione, lo scandalo, la presa di coscienza e l’importanza dell’autodeterminazione. Voglio mostrare come, nonostante gli ostacoli dettati da una condizione fisica magari più complessa, si possa essere protagonista della propria vita, artefice delle proprie scelte e del proprio futuro, esattamente come un pittore con la sua tela, uno scultore con il marmo, o un regista con la sua commedia. Quindi sì, la vita può essere sicuramente vista come un’opera d’arte e a me piace pensarmi come l’artista che la realizza.
Nel tuo libro fai spesso riferimento al mondo del teatro, come nel caso della metafora della maschera che dici di aver portato per anni, della Eleonora che non voleva farsi vedere fragile. Ma il teatro è per eccellenza il campo in cui l’uomo prende consapevolezza di sé e dell’altro vestendo altri panni o osservandone, ascoltandone la storia. Credi che un primo passo nell’incontro col diverso, nel percorso di riconoscerci tutti simili e diversi, passi da uno sguardo nuovo che si posi sui corpi e un ascolto rinnovato di stupore che si accosti alle storie?
"Ho impiegato trent'anni per conoscere mia nipote", mi ha detto mio nonno per telefono dopo aver letto metà del mio romanzo. "Non sapevo tante cose di te, non sapevo dei tuoi amori", ha continuato con la voce rotta dalla felicità, "non sapevo che ti piacesse sbevazzare come al nonno", ha concluso scherzoso. Mio nonno, l'uomo che stimo e ammiro più di chiunque altro, ha colto in pieno lo spirito col quale io voglio che si legga il mio romanzo. Il mio intento è proprio quello di far leggere la mia storia con curiosità e di produrre stupore nel lettore quando finalmente riesce a mettersi nei miei panni e a interpretare il mio vissuto da un nuovo punto di vista, un punto di vista interno e intimo. Credo che guardando la mia storia attraverso i miei occhi il lettore possa spogliarsi delle idee preconcette relative alla disabilità e addentrarsi nel racconto esplorando aspetti del tutto sovrapponibili alla storia di vita di una donna ambiziosa a prescindere dalla disabilità.
Il travaglio dell’accettazione di sé, soprattutto quando si ha una patologia invadente come la SMA, è gravoso. Nel tuo libro si riconoscono tre tappe da te attraversate a riguardo: la coscienza di sé; l’incontro con l’amore; l’affermazione di autodeterminazione. In quale di queste tappe la scrittura credi ti abbia aiutato di più? In cosa credi ti potrà aiutare ancora?
Nel mio romanzo si possono trovare alcuni passi in cui è evidente la mia presa di coscienza sulla patologia e sul mio corpo. Si tratta di una consapevolizzazione brusca, che non passa attraverso un processo graduale, ma che si configura più come un risveglio improvviso. Io stessa, per gran parte della mia vita, mi sono rifugiata sotto la maschera dell’autoironia per nascondermi dalle mie fragilità, dalla paura della non accettazione anche da parte di me stessa. È arrivato un momento in cui nascondersi non era più possibile ed è stato in quell’istante che la scrittura mi ha aiutato a rielaborare, a oggettivizzare e normalizzare le mie paure. E credo che continuerà a svolgere questo importante compito anche in futuro.
Riconoscersi fragili, feriti e scissi tra mente e corpo; riconoscere di non apprezzare se stessi come si è: quant’è difficile e quanto necessario? Perché è importante raccontarlo ancora?
Riconoscere le proprie fragilità, vedere la paura del diverso anche nei propri occhi, prendere consapevolezza della difficoltà di accettare se stessi è molto difficile, ma è fondamentale per scoprire di possedere delle risorse per reinventarsi.
L’amore appare nel tuo percorso la chiave di volta, la valvola di ricongiunzione con te stessa. Ma tu descrivi bene come non sia una strada spianata anche questo passaggio. Ci parli nel libro della paura di non poter mai essere amata e poi dello stupore del riconoscere invece amore negli occhi di qualcuno rivolti a te. Ma anche della paura di essere inadeguati o, addirittura, egoisti al cospetto dell’amore, dal momento che vivere con chi ha la SMA comporta un vita non-ordinaria. Qual è il segreto per affrontare tutto ciò ogni giorno e poi trovare l’energia anche per narrarlo?
Quando ancora non avevo incontrato qualcuno che mi vedesse come donna oltre la mia patologia, o qualcuno che non fosse intimorito dalla mia condizione, io stessa restavo incatenata da quello sguardo. Ero profondamente convinta che sarei sempre stata solo un peso per l’altro. Io per prima non riuscivo a vedere il mio valore. All'epoca ero una ragazzina, ancora non ero consapevole di tante cose: credevo di accettarmi, pensavo di essere capace di ricevere amore, ma pensavo che nessun uomo potesse accettarmi così come sono. Così incappavo puntualmente in ragazzi che, dopo poco, non facevano altro che confermare l'idea che io avevo di me, scappando spaventati. Poi ho aperto gli occhi. Ho capito che la prima a non accettarsi ero io, temevo l'abbandono e non mi permettevo di lasciarmi andare. Nel momento in cui sono diventata più consapevole di me, è cambiato tutto. Ho preso coscienza delle mie fragilità e le ho guardate in faccia. Ciò mi ha permesso di fare pace con me stessa e con la SMA e di trovare in me le risorse per aprirmi all’altro. E' proprio attraverso le relazioni che si impara a conoscere se stessi, ad accettarsi e a farsi accettare. L’energia per narrare tutto questo processo deriva dalla voglia di condividere al fine di dare input positivi, ma realistici e fondati sull’esperienza.
Nel tuo cammino grande rilevanza ha avuto per te l’autodeterminazione che hai raggiunto grazie agli assistenti. Nel libro parli della complessità insita nel rapporto assistenti-assistiti, del rispetto dei confini e del volere altrui. Quali passaggi sono stati per te fondamentali per capire come costruire un rapporto sano con i tuoi assistenti?
Il rapporto tra assistente e “assistito” non è un semplice rapporto di lavoro tra datore di lavoro e dipendente. C’è in gioco molto di più, c’è in gioco la relazione che si viene a creare tra due persone che, involontariamente o no, mettono in campo i loro vissuti soggettivi e personali. Il lavoro dell’assistente è estremamente complesso e non tutti possono svolgerlo degnamente. Richiede la capacità di entrare in risonanza empatica rispettando i confini dell’altro, permettendo alla persona portatrice di disabilità di vivere la sua quotidianità come meglio crede, di gestire i propri tempi secondo i propri bisogni, di compiere le proprie scelte in totale libertà senza l’influenza e il giudizio di nessun altro. L’assistente non è un educatore, poiché si presuppone che la persona che usufruisce del suo operato sia pienamente in grado di autodeterminarsi. L’assistente fa ciò che le braccia e le gambe della persona disabile non possono fare, permettendole di muoversi nel mondo e di essere un soggetto attivo, sempre nel contesto di un particolare tipo di relazione che si avvicina molto all’amicizia. Come ho imparato tutto questo? Incappando in una serie di assistenti che riuscivano a fare il loro lavoro solo a metà, o perché troppo invadenti e irrispettose della mia volontà, o perché troppo centrate sul guadagno in termini di denaro, o perché semplicemente inesperte, o perché non sapevano riconoscere il valore al lavoro che svolgevano. E poi ho conosciuto invece persone che facevano questo lavoro con passione e rispetto nei miei confronti. Così ho capito che è questo il tipo di assistenza a cui aspiro. Ho capito di voler essere libera di esercitare un po’ di quel sano egoismo di cui chiunque fa esperienza quotidianamente. L’egoismo che si sperimenta quando, ad esempio, ci si spazzola i capelli muovendo la spazzola con la velocità o nel verso che più si preferisce. L’egoismo di quando si impiega il tempo e l’attenzione necessari a truccarsi nel modo che meglio valorizzi il proprio volto. L’egoismo salvifico che concede di prendersi una giornata per staccare dal mondo intero, senza preoccuparsi del tempo, degli orari, degli altri. L’egoismo di una doccia alla fine di una lunga giornata, senza dover chiedere niente a nessuno, senza sentirsi un peso perché ci deve essere qualcuno a fartela quella doccia, agognata e maledetta al contempo. Voglio sentirmi un pochino egoista quando mi prendo cura di me.
In trentuno anni di vita, tante mani hanno toccato il mio corpo, alcune più gentili, altre meno. Tante persone si sono succedute, tutte con lo scopo di assistermi. Poche però riescono o sono riuscite a fare qualcosa di più sottile e di più grande. Avere cura. Cura del mio corpo e della mia specifica identità. Quella cura che io non posso offrire a me stessa direttamente. Quella cura così scontata agli occhi di chi ne beneficia gratuitamente ogni giorno, in ogni istante, da essere confusa con l’egoismo nella sua accezione negativa. Egoista, o viziata, perché scelgo di indossare un abito più bello, ma più scomodo da mettere, o perché “pretendo” che il mascara non sia sbavato, o perché voglio guardarmi allo specchio e notare che i miei capelli abbiano una piega perfettamente liscia. Egoista, o viziata, perché rimarrei dieci minuti in più con lo sguardo perso nel mare, in una giornata dedicata a staccare. Alcune di queste persone però ci sono riuscite a valorizzare questo mio “egoismo”, a rispettarlo, a riconoscerne l’ingenuità, a darne il giusto respiro. Alcune di queste persone hanno posato le loro mani sul mio corpo con lo stesso amore che hanno per il loro, e hanno rispettato la totalità del mio modo di essere permettendomi di sentirmi libera. Ecco, queste persone hanno davvero compreso che cosa significhi fare assistenza. Tutto il resto ne è soltanto un pallido simulacro. All’interno del romanzo Beatrice e Rossella sono l’esempio lampante della vera assistenza.
Tutto nel tuo libro manda un chiaro messaggio: una vita straordinaria si può vivere anche con la SMA. Se confrontarsi col tuo percorso per prendere meglio in mano la propria vita, è un motivo per cui tutte le persone con disabilità potrebbero leggere “Dietro le quinte”, perché dovrebbe farlo un comune lettore che non è mai entrato in contatto con il mondo della disabilità?
Io considero il tema della disabilità come un tema qualunque al quale il lettore può avvicinarsi con curiosità come nei confronti di qualsiasi altro argomento. Inoltre, nel corso della narrazione parlo di aspetti della vita in cui chiunque si può immedesimare. Io desidero produrre conoscenza sulla SMA, ma allo stesso tempo vorrei che il mio libro non venisse letto solo come la storia di una persona disabile, ma come la commedia di una donna che insegue i suoi sogni.